Il futuro della ristorazione è l’olio

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Chef Alfonso Aquino

«Il più grande business? Olio Evo in cottura. Ma che sia italiano». Per il patròn dell’Osteria del Tarassaco, Fabio Ferrara, gli abbinamenti cibo-olio personalizzati sono alla base della cucina che verrà

Di Jolanda Ferrara

Il futuro dell’olio in cucina? «Personalizzazione del gusto, abbinamenti cibo-olio su misura per ogni commensale, ogni genere di palato. Qualcosa di inedito finora mai sperimentato». È quanto sostiene Fabio Ferrara, sapiente e giocondo patròn dell’Osteria del Tarassaco di Rivisondoli, progetto di ristorante-laboratorio che fin sul nascere (primi anni duemila) ha impostato la sua idea di cucina sull’indagine a tutto campo intorno alla materia gastronomica con una predilezione pressoché assoluta per i grandi oli extravergine d’oliva. «Se sbagli olio puoi rovinare tutto», scongiura Ferrara, «Al Tarassaco utilizziamo fino a quattro oli in cucina e rifiniamo i piatti in sala, attingendo da una cospicua selezione di extravergine italiani».

«Una missione» continua Ferrara, «poter trasferire al cliente le nostre curiosità e interagire con il loro gusto, il desiderio di farli partecipi delle nostre sperimentazioni condotte in vivace collaborazione con produttori di grande olio, cuochi, sommelier e talenti della ristorazione. Tutti si divertono e imparano, qui l’olio lo si venera». Ed è per questo motivo che l’Osteria del Tarassaco è segnalata (e premiata) dall’Airo, l’Associazione internazionale dei ristoranti dell’olio. Abruzzo Economia non ha mancato l’esclusivo invito alla specialissima degustazione dedicata ad alcune pregiate espressioni di oli monovarietali da olive tipiche di territorio (cultivar). Un laboratorio del gusto organizzato con cura maniacale dal patròn Fabio Ferrara riunendo massimi esperti, oli di eccellenza e un pubblico pronto a emozionarsi, incoraggiato da calici nature e assaggi gastronomici opera del giovane chef partenopeo Alfonso Aquino (segnalato Michelin, rientrato stabilmente al “Tarassaco” dopo un’esaltante stagione al Castel Pergine).

Per il piacere dei molti ospiti una serie di finger e piatti capolavoro accompagnati da altrettanti vini e ben sedici – quanti gli assaggi – monovarietali signature tra cui l’elegante, prezioso Intosso di Casoli e la Gentile di Chieti del Trappèto di Caprafico Tommaso Masciantonio (Casoli), gigante dell’olivicoltura abruzzese ai piedi della Maiella, del quale vi abbiamo già parlato in un precedente numero. A rappresentare la sfaccettata biodiversità abruzzese non mancava la Dritta “opulenta e diretta” dell’azienda Palusci (Pianella), e il ruvido Tortiglione teramano del frantoio Monaco (Tortoreto). Nettari serviti a crudo sul piatto finito e in cottura, in purezza e nell’ideale olivaggio/blend ideato dal frantoiano come migliore espressione dell’annata. Proprio “Un bagno nell’olio”, qualità estrema, strepitoso teatro del gusto. Traghettati dall’insaziabile Caronte (Ferrara) e suo impeccabile staff, fino a tarda ora pronti ad avvincere con inedite combinazioni cibo-olio-vino.

Fabio Ferrara, perché tanta attenzione sugli oli monovarietali?

«Le varietà di olive tipiche regionali italiane rappresentano riconoscibilità e alto valore aggiunto del prodotto principe dell’agroalimentare italiano, l’olio evo. Qualità che rendono unico e inconfondibile il racconto delle molte identità gastronomiche regionali italiane, oltre cinquecento, un patrimonio che non ha uguali al mondo. Valorizzare le oltre cinquecento cultivar di olive italiane, patrimonio genetico unico al mondo, rappresenta una grande opportunità di economia sostenibile, attenta ai cambiamenti ambientali e al benessere delle persone».

Come nasce l’abbinamento cibo-olio personalizzato a misura di palato?

«Il principio guida è quello della nutraceutica, guadagnare in salute salvaguardando in cottura le qualità del cibo. In soldoni significa utilizzare cibi e oli di grande qualità, risparmiando. La quantità di olio utilizzata non incide più di tanto sul food cost perchè l’olio va allungato con l’acqua in rapporto 1:3, ciò si rende necessario per abbassare il titolo alto di polifenoli che un olio di alta qualità assicura, un aspetto fondamentale per proteggere e conservare i nutrienti sotto i 72°. Acqua e olio, oppure acqua aglio e olio come usa nelle nostre case per cucinare il carciofo. Questo discorso applicato più da vicino all’Abruzzo significa valorizzare le molte varietà di olive tipiche, un tesoro profondamente identitario di gran lunga superiore a quello vitivinicolo abruzzese basato su cinque- sei varietà di uva ‘autoctona’».

Da sinistra Fabio Ferrara il patròn del Tarassaco, Barbara Alfei responsabile settore olivicoltura
e capo panel dell’Assam Agenzia Servizi Settore Agroalimentare Marchea e Palmiro Ciccarelli esperto assaggiatore di oli

Il concetto di fondo è destinato a rivoluzionare pratiche diffuse nei consumi casalinghi e nella pratica della ristorazione?

«L’appuntamento del 1 agosto, richiesto da tanti amici, arriva dopo lunghe sperimentazioni un po’ per gioco un po’ per desiderio di trasferire la nostra esperienza sulla materia assoluta, qualcosa di impagabile che nessuno fa,. Cioè tenere desta l’attenzione del consumatore sull’olio di qualità rifuggendo dalle demonizzazioni della pubblicità: è un delitto verso noi stessi consumare olio da 2,90 euro. Per mangiare bene occore spendere il giusto, a casa come al ristorante. E’ la mia politica non avere menu, né carta vini, né carta olio. Procedo in modo empirico con una batteria di settanta (sic!) monovarietali italiani e qualche etichetta estera, bottiglie da mezzo litro che incidono solo minimamente sul conto finale. Seguo l’estro, l’umore della giornata, la stagionalità, con tre ingredienti faccio nove piatti, cambiamo menu ogni tre giorni».

Come si procede nella prassi?

«Ogni olio va messo in contrapposizione col piatto, l’extravergine usato a crudo sul piatto finito ha l’effetto di accendere il gusto della pietanza spesso superando anche i canoni culturali tradizionali. In cottura si va in abbinamento, a tavola si va in contrasto. Per esaltare un piatto a base pomodoro non utilizziamo un olio che profuma di pomodoro ma lavoriamo sui profumi terziari (tipo erba falciata, rucola) che i più non sanno distinguere, dunque un invito a riappropriarsi del proprio olfatto. In altre parole l’olio a tavola è uno starter, con il calore del piatto estrae profumi e sapidità, due opposti che si completano ed esaltano a vicenda. Da qui si procede all’abbinamento del vino, in concordanza, cambiando l’olio cambierà il vino».

Consigli di abbinamento dal mare magnum delle cultivar abruzzesi?

«Dipenderà dalle annate e anche dalle stagioni in corso. D’estate prevale il vegetale e si cerca la nota di freschezza, dunque saremo orientati verso una Dritta aprutino-pescarese, Gentile di Chieti, Pendolino teramano, Castiglionese o Toccolana dell’alta Valpescara. In autunno si cerca il profumo pomodoroso che non è più disponibile col frutto fresco ma che ritroviamo nell’Intosso del Pescarese (Pianella Moscufo), Gentile dell’Aquila o nell’Oliva grossa di San Salvo Marina che profuma di fave e piselli, olio ideale nelle zuppe invernali. Un vero atout d’estate e d’inverno è l’Intosso di Casoli prodotto sull’altopiano di Caprafico sotto il massiccio della Maiella, olio dai profumi spiccati di mandorla e carciofo che si accompagna egregiamente con tutto. Della fascia pedemontana è pure la Gentile dell’Aquila, oliva temprata da notevoli escursione termiche e generosa nelle sue sfaccettature da Pettorano a Raiano eVittorito».

Il territorio fa la differenza insomma e in Abruzzo c’è da sbizzarrirsi: il segreto dell’originalità è nel ritorno al passato contadino?

«Si tratta di rivalutare le varietà rustiche e tipiche dei luoghi, accrescere la cultura del monovarietale, affinare il palato, cercare il ricordo dell’oliva spremuta, l’amaro e il piccante. Fare come hanno fatto i francesi con i cru e grand cru selezionando le produzioni, significa far crescere il valore del terroir, dare valore alla biodiversità locale ovvero all’identità, la cultura di quel luogo. Dietro un filo d’olio c’è tutto un mondo affascinante di profumi e sapori da scoprire e riconoscere. Lo stesso piatto declinato in sala con oli diversi sviluppa profumi e caratteri differenti, le preferenze del commensale sono decisive nella scelta: abbiamo un piatto di patate e peperoni e vuoi sentire il peperone, userai un olio che richiama la mandorla verde, se vuoi spingere il gusto della patata aggiungerai un olio che sa di pomodoro».

Qual è il segreto per un piatto di qualità assoluta?

«Per esaltare il prodotto abruzzese devi aggiungere l’eccellenza di un’altra regione, farne percepire la grande qualità senza sentirsi secondi a nessuno, dialogare alla pari restando se stessi. I nostri prodotti modestamente fanno paura, penso al pomodoro coltivato dai giovani di Podere Francesco a Mosciano Sant’Angelo, i fagioli Palestina dei contadini di Vittorito, il cece nero di Pianella, il carciofo di Prezza… L’elenco è sconfinato, qualità che non teme confronti, possiamo divertirci come ci pare».

Il ritorno alla terra è garanzia per un’economia circolare?

«C’è bisogno che i giovani tornino all’agricoltura per risollevare le sorti dell’olivicoltura nazionale, occorre promuovere progetti di recupero degli olivi abbandonati, organizzare scuole di potatura, squadre specializzate all’interno di aziende con piante in abbandono. Tutto questo servirebbe ad abbassare i costi di coltivazione, accrescere il reddito dei piccoli produttori uniti a sistema e recuperare un patrimonio genetico che si va perdendo. Solo nella provincia di Chieti si contano oltre ventimila di piante di olivo abbandonate, due milioni e mezzo in tutta Italia, quarto produttore di olio al mondo che paradossalmente porta sulle proprie tavole per la quasi totalità olio estero peraltro di dubbia qualità. Andrebbe posta più attenzione nella ricerca delle vecchie cultivar, il recupero delle varietà tradizionali nei territori d’origine serve a coltivare la biodiversità, rispettarla e potenziarla per ottenere migliori risultati qualitativi, meno chimica, più redditività. Tanto per dire, tipica della provincia pescarese è l’oliva Dritta perciò è perfettamente inutile coltivare da quelle parti il Leccio del corno tipico della zona di Lucca, mentre in Toscana si coltiva la Ravece propria dell’Alto Avellinese…».

 

 

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