Ecco l’olivicoltura abruzzese che vince nel mondo

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Tommaso Masciantonio, titolare dell’azienda, Trappèto di Caprafico, Casoli (CH)

«Nella biodiversità del territorio la sua ricchezza», parla Tommaso Masciantonio, il signore dell’olio abruzzese

Di Jolanda Ferrara

Classe 1976, Tommaso Masciantonio è il volto della moderna olivicoltura abruzzese che vince nel mondo. Ai concorsi internazionali come a quelli di più fine marca italiana il suo pregiato olio è una conferma, performance da Oscar a dispetto di annate sempre più difficili o anomale per effetto del cambiamento climatico. La sua azienda, Trappèto di Caprafico, sull’altopiano calcareo teatino tra Casoli e Guardiagrele, risale a metà Ottocento attraverso cinque generazioni di agricoltori custodi della tradizionale oliva ‘ndossa esclusiva dell’altopiano casolano e oggi presidio Slow Food, l’Intosso di Casoli.

Cinquemila piante per oltre la metà olivi centenari, un patrimonio culturale della comunità locale e vanto dell’agricoltura italiana che guarda al Trappèto dei Masciantonio come modello di olivicoltura in altitudine. Ora anche della emergente vitivinicoltura alle falde della Maiella. Masciantonio imbottiglia in purezza i vitigni tradizionali allevati sull’altopiano di Caprafico: Pecorino superiore da vigna vecchia, “Mantica”, e da vigna giovane, “Jernare”, oltre al vellutato “Sciatò”, Montepulciano d’Abruzzo Dop. Condizioni pedoclimatiche estreme e allo stesso tempo ideali per prodotti dalla qualità ricercata, grande eleganza e forte appeal anche sul mercato internazionale. Nel caso dell’extravergine di intosso l’alto profilo organolettico unito agli elevati standard salutistici ne fanno una irrinunciabile esperienza sensoriale e gastronomica di cui neanche i palati giapponesi sanno più fare
a meno.

Masciantonio, la tradizionale oliva da tavola che diventa extravergine di alta gamma dal bouquet ricco e profumato: come si valorizza una cultivar di nicchia come l’Intosso di Casoli?
«Entrare nella rete dei presìdi Slow Food è stata la massima valorizzazione per una cultivar minore  cioè di territorio come l’oliva intosso. Ciò che rende unico l’extravergine di intosso è la pietra calcarea della Maiella, il terroir. Così come la montagna, le nostre piante di olivo hanno un qualcosa di selvaggio e puro che va custodito. L’altitudine, la vicinanza al massiccio, la natura fortemente calcarea del terreno hanno l’effetto di potenziare le caratteristiche di una varietà di olivo selezionatasi geneticamente nel tempo. È scientificamente provato: dove non c’è abbondanza idrica e dove la mineralità è più spiccata, profumi e fenoli si concentrano. Di qui la fenomenale combinazione
di amaro e piccante del prodotto finale, il nostro Olio».

Vocazione del territorio, qualità eccellente, l’Abruzzo ai primi posti tra le regioni italiane per quantitativi di prodotto e per cultivar annoverate, un capitale per molti versi unico di varietà nostrane di olivo. Eppure cosa è mancato finora alla valorizzazione dell’olio abruzzese? Quali strategie adottare affinché il prodotto possa dirsi giustamente remunerativo per i produttori vessati dalla concorrenza della grande distribuzione con oli non italiani, cioè di non uguale qualità?
«Il processo di conoscenza è iniziato, finora si è pensato all’olio come a un grasso per ungere e non all’olio come ingrediente fondamentale ad esaltare il gusto di un piatto.
Finalmente si ha consapevolezza della qualità del prodotto di filiera italiana, bisogna andare avanti su questa strada. Davanti a un prodotto di qualità italiana garantita non bisogna pensare che costa caro a confronto con quello del supermercato, un prodotto con elevate caratteristiche organolettiche e salutistiche non può avere un prezzo basso. Tutto sta a far riconoscere la qualità al consumatore».

In che modo?
«Il problema è tutto lì, riconoscere la differenza, educare il consumatore promuovendo visite in azienda, degustazioni nei mercati e nei luoghi di più largo consumo. Le istituzioni
devono impegnarsi nella valorizzazione insieme ai produttori. Abbiamo un patrimonio da valorizzare più che da difendere: il prodotto che vale si difende da sé».

Che tipo di approccio consiglia ai consumatori che vogliono prendere confidenza con
una materia appassionante almeno quanto il vino?
«Consiglio di sperimentare abbinamenti tra olio e cibo scegliendo anche in base al proprio gusto personale. Le variabili sensoriali sono moltissime, deve essere un gioco
piacevole, non è necessario essere grandi esperti di cucina né supercuochi. Consiglierei di provare alternando tre, quattro oli in cucina. Ai miei clienti suggerisco di cucinare con un olio più quotidiano come può essere un blend del territorio o anche un monovarietale dal gusto non troppo spiccato, e poi rifinire il piatto con un olio di impronta più marcata, da usare a crudo. Un’idea per familiarizzare con le principali espressioni territoriali abruzzesi può essere alternare dritta pescarese, toccolana del Casauriense, gentile di Chieti, intosso di Casoli, gentile dell’Aquila, tortiglione teramano. Giocando in questo modo si scoprirà che l’olio non è più solo un condimento ma un ingrediente capace di stravolgere in senso buono
i connotati di un piatto. Ci si accorgerà di non poter più apprezzare quel cibo senza quel tipo di olio. E da quel punto non si torna più indietro».

L’Abruzzo è tra le regioni italiane più ricche quanto a cultivar di olive, di varietà produttive se ne contano una trentina, molte di più dei vitigni tipici abruzzesi. Eppure nei programmi istituzionali, la promozione dell’olio è un passo indietro rispetto al vino. Come la vede?
«Quello dell’olio è un mondo altrettanto complesso se non più del vino grazie alla ricchezza di varietà autoctone di olive. Significa grandissima variabilità sensoriale di territorio in
territorio, addirittura di comune in comune, un patrimonio unico di cui dobbiamo ringraziare unicamente gli agricoltori propagatori che nel tempo hanno selezionato naturalmente
scegliendo l’olivo più bello e più buono dalla popolazione esistente lasciandoci una ricchezza irripetibile che a raccontarla potrebbe farci guadagnare tanto di più. La ricerca dovrebbe
raccogliere questa eredità e lavorarci su, come con i cru del vino, incentivare nuovi impianti di cultivar tradizionali piuttosto che progettare impianti superintensivi. Non dobbiamo
inventarci nulla, solo curare e difendere quello che abbiamo, e migliorarlo».

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