Una ricerca su 333 dipendenti di PMI italiane svela verità inattese sull’adozione dell’AI e ridefinisce le priorità manageriali e di policy

Quando parliamo di intelligenza artificiale (IA), non stiamo parlando di robot umanoidi o scenari fantascientifici. Stiamo parlando di sistemi che emulano caratteristiche dell’intelligenza naturale – capacità di sensing, apprendimento e automazione – per potenziare o sostituire compiti umani specifici. ChatGPT che redige e-mail, algoritmi che raccomandano prodotti su Netflix, assistenti vocali che gestiscono agende: questo è il volto reale dell’IA che sta ridefinendo il panorama competitivo.

Il punto di svolta non è tecnologico ma economico: l’IA sta democratizzando capacità che fino a ieri erano monopolio delle grandi organizzazioni. Una piccola-media impresa (PMI) di Pescara oggi può accedere a strumenti di analisi predittiva che cinque anni fa richiedevano team di data scientist e budget milionari. Questo livellamento del campo di gioco rende l’adozione dell’IA non più un lusso ma una necessità competitiva per la sopravvivenza nel mercato.

Dentro le PMI: cosa rivela davvero la ricerca

La ricerca che ho condotto insieme ai colleghi delle Universitas Mercatorum e dell’Università Parthenope su 333 dipendenti di PMI italiane ha distrutto diversi miti e ha rivelato dinamiche che dovrebbero far riflettere manager e policy maker.

Il 79% dei lavoratori nelle PMI usa già l’IA sul posto di lavoro e tra le tipologie diverse di IA domina quella generativa – per capirci, software come ChatGPT o Claude (43%), seguita dagli assistenti virtuali – (27%) – ad esempio Siri, Cortana o IBM Watson Assistant. Ma il dato più interessante è un altro: l’età, l’istruzione e l’esperienza non contano, come, per logica, si potrebbe ritenere. Questo ribalta completamente la narrativa dominante del “digital divide generazionale” e suggerisce che le PMI che assumono giovani, confidando in una loro maggiore propensione all’uso della tecnologia,  potrebbero sbagliare strategia.

Dalla ricerca però emerge un dato scomodo: le donne percepiscono significativamente meno l’utilità personale dall’IA rispetto agli uomini. Non parliamo di competenze tecniche (quelle sono identiche), ma di perceived personal utility, ovvero di quanto l’IA viene considerata vantaggiosa ai fini del ruolo ricoperto, delle mansioni svolte e, in ultima analisi, utile per la carriera.

In questo caso le implicazioni pratiche sono importanti: per i manager questo risultato evidenzia che implementare IA senza affrontare il bias di genere equivale a sprecare metà del potenziale umano; per i policy maker comporta che gli incentivi all’adozionedell’ IA dovrebbero includere obbligatoriamente componenti di formazione specifica di genere.

Bias di genere e percezione dell’utilità dell’IA

Il risultato più controintuitivo della ricerca però è che nelle PMI l’adozione dell’IA non dipende tanto dalla facilità di utilizzo della tecnologia che si vuole implementare ma è legata maggiormente a come è gestito il processo di gestione del cambiamento (in questo caso, legato all’adozione di una nuova tecnologia) e dalla cultura organizzativa digitale che pervade l’impresa. Quest’ultima, infatti, predice l’adozione effettiva della tecnologia IA da parte delle persone molto meglio di quanto facciano le caratteristiche di usabilità della tecnologia stessa.

Questo suggerisce un’opportunità strategica per le PMI italiane perché mentre le grandi aziende si impantanano in progetti di adozione dell’IA complessi, le PMI che adottano un approccio flessibile, collaborativo e di apertura all’innovazione e alla sperimentazione possono ottenere vantaggio competitivo utilizzando tecnologie semplici ma culturalmente più accettate

Cultura digitale e gestione del cambiamento

In termini pratici, un’azienda con mentalità aperta alle nuove tecnologie e all’innovazione ottiene più valore da un chatbot basico di quello acquisito attraverso l’introduzione di un sistema IA sofisticato introdotto da un’azienda strutturata e di grandi dimensioni che però sia meno votata alle novità.

Questo ha implicazioni profonde poiché evidenzia che l’investimento primario per le imprese non dovrebbe essere nel software ma nel mindset, nella mentalità delle sue persone e nella cultura organizzativa che le caratterizza.

L’IA nelle PMI non è una questione di budget tecnologico ma di organizational intelligence. I nostri dati dimostrano che il successo dipende dalla capacità di far percepire l’IA come possibilità di valorizzazione dell’individuo, non come minaccia al lavoro.

Anche se indicare pratiche manageriali concrete può risultare un approccio più consulenziale che non favorisce una riflessione critica, volendo essere concreti possiamo dire che la giusta soluzione sta nel ribaltare la sequenza di investimento: 60% del budget in formazione va allocato nel change management e nel far crescere una cultura organizzativa digitale, 40% nella tecnologia in sé.

E prima di implementare una tecnologia di intelligenza artificiale andrebbe fatta una verifica  del bias di genere, analizzando come uomini e donne nell’organizzazione percepiscono l’innovazione tecnologica poiché il gap esiste, anche se non è palese. 

La mentalità prima della tecnologia

Ad esempio, i nostri dati mostrano che l’IA generativa e le chatbot hanno ROI (ritorno sull’investimento) percepito superiore: si potrebbe iniziare implementando semplici tecnologie, evitando soluzioni complesse, e misurando prima il grado di maturità culturale dei lavoratori e solo successivamente esaminare le loro competenze tecnologiche. Questo poiché la correlazione tra formazione all’utilizzo e adozione di una nuova tecnologia non è lineare. La formazione tecnica sull’IA impatta sulla facilità d’uso e l’utilità personale, ma non ha effetto sull’utilità percepita generale dell’utilizzo da parte del lavoratore.

Tradotto: serve formare le persone non solo su come usare ChatGPT ma su come l’IA cambia il loro ruolo e il loro valore distintivo. Le PMI vincenti stanno già facendo formazione strategica – non operativa – e cioè stanno lavorando su “come l’IA mi rende più competitivo” prima di “come uso l’IA”, invertendo in tal modo le priorità: prima cultura, poi tecnologia.

Dalla teoria alla pratica: dove iniziare davvero

La ricerca che abbiamo condotto suggerisce anche alcune raccomandazioni per definire policy regionali: ad esempio una prima raccomandazione potrebbe essere quella di premiare e finanziare progetti che in primo luogo includano interventi sulla cultura organizzativa aziendale e solo dopo realizzino l’acquisto dell’infrastruttura o della tecnologia.

Ogni bando che supporta l’adozione di tecnologie di IA dovrebbe includere una pre-valutazione obbligatoria sulla partecipazione femminile e della percezione dell’utilità nell’utilizzo di quella tecnologia da parte dei dipendenti, poiché serve prima l’autovalutazione dello stato di appropriatezza culturale all’utilizzo dell’IA da parte dei lavoratori e solo successivamente l’investimento in tecnologia.

Le PMI che sopravviveranno alla prossima decade non saranno quelle con l’IA più sofisticata, ma quelle che riusciranno a creare culture dove l’IA amplifica il talento umano invece di sostituirlo. La rivoluzione è culturale prima che tecnologica. Chi l’ha capito ha già vinto.

Articolo a cura di Gilda Antonelli