Il futuro di un’economia “virale”

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L’impatto del Covid-19, il difficile percorso che ci attende prima della ripresa, il punto di vista del Regno Unito: a colloquio con Emanuela Sciubba, professoressa di economia al Birbeck College di Londra

 Di Raffaella Quieti Cartledge, corrispondente da Londra di AE

Abruzzese e originaria di Chieti, Emanuela Sciubba, professoressa di economia e direttrice del programma di laurea del Birbeck College di Londra, analizza dal Regno Unito l’attuale emergenza da Covid-19 sotto il profilo economico. «Prevedere l’impatto del virus – afferma – richiede un’analisi più simile a quella che si fa quando si studiano le conseguenze di una guerra, o di una calamità naturale». L’Inghilterra, poi, «guarda alla situazione in Italia con estremo interesse e naturalmente con preoccupazione».

Qual è la percezione nel Regno Unito di come l’Italia sta gestendo la crisi Coronavirus ?

«Come in Italia ci si è basati sull’esperienza della Cina, così l’Europa si baserà sul nostro Paese, perché purtroppo, come ha detto Boris Johnson nella conferenza stampa del 9 Marzo, l’aumento esponenziale del numero di contagiati è inevitabile. La strategia attuale nel Regno Unito non è quella di un irrealistico blocco dei contagi, ma quella di cercare di portare il picco del contagio fino all’estate, quando il sistema sanitario è solitamente meno affannato. Sulla efficacia delle misure prese dall’Italia, la percezione è che il nostro Paese stia facendo ciò che è necessario, data la fase della trasmissione del virus in cui si trova. I media chiedono insistentemente a Boris Johnson se non sia il caso di chiudere le scuole ed avviare altri provvedimenti di isolamento sociale simili a quelli adottati in Italia, per ora la risposta del primo ministro inglese è stata negativa, dice che è troppo presto. Chiedere agli inglesi di restare a casa da subito, potrebbe risultare controproducente  perché renderebbe le stesse misure meno efficaci quando ne avremo veramente bisogno, tra qualche settimana».

Dottoressa Sciubba, siamo già in grado di fare previsioni sulle conseguenze economiche globali del Coronavirus?

«L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha usato una metafora suggestiva quando ha detto che l’attuale emergenza da Covid-19 ci conduce in un “uncharted territory”. Questa è l’espressione che si usa per descrivere tratti di mare che non sono nelle carte nautiche e dove l’unico modo di navigare è a vista.        È particolarmente difficile fare delle previsioni. Questo è vero, in generale, per le previsioni economiche. Basti ricordare quanto la credibilità degli economisti abbia sofferto quando solo in pochi sono riusciti a dare campanelli di allarme per la crisi finanziaria del 2008. Tuttavia, ciò è particolarmente vero in queste circostanze per almeno due ordini di motivi. Innanzitutto, c’è molta incertezza dal punto di vista medico ed epidemiologico, non solo perché ci troviamo di fronte ad un virus nuovo, ma anche perché una della caratteristiche che distingue il COVID-19 dalle epidemie del passato più recente, come la SARS o la MERS, è il fatto che, nel caso del COVID-19, i contagi avvengano anche attraverso soggetti privi di sintomi. Questo implica che le stime attuali che riguardano sia il fattore di trasmissione (quello che abbiamo imparato a conoscere come il fattore R0), sia il grado di fatalità della malattia, siano poco affidabili. In secondo luogo, noi economisti siamo abituati a valutare il rischio di mercato. L’incertezza che stiamo affrontando in questo caso è di tipo diverso, e non soltanto di natura economica. Prevedere l’impatto del Covid-19 richiede un’analisi più simile a quella che si fa quando si studiano le conseguenze di una guerra, o di una calamità naturale. Ed è quindi un esercizio più difficile, a cui – per fortuna – siamo meno abituati. È arduo fare previsioni anche per il ruolo importante che l’emotività giocherà nel guidare l’impatto della diffusione del virus su attività economiche quali il turismo, per esempio».

Cosa impariamo dalla esperienze delle pandemie passate?

«Sono passati poco più di 100 anni dall’epidemia peggiore della storia, l’influenza spagnola del 1918, che causò circa 50 milioni di vittime. In tempi più recenti ci sono state la SARS, la suina, la MERS, Ebola, Zika, e adesso il Coronavirus. Si stima che la SARS, nel 2003, abbia causato danni all’economia per più di 50 miliardi di dollari, avendo interessato 8.000 persone e causato poco meno di 800 vittime. Come ordine di grandezza il confronto con la SARS non è molto indicativo, sia perché il Covid-19 è molto più contagioso, anche se per fortuna meno letale, e sia perché il mondo contemporaneo è già diverso rispetto a quello del 2003. Oggi le importazioni dalla Cina, per esempio, sono

3 volte maggiori, e il turismo dalla Cina è 8 volte maggiore rispetto al 2003. Inoltre, le misure messe in atto per il contenimento del virus sono state più intense e quindi anche più costose dal punto di vista economico. Un recente studio della Banca Mondiale stima i costi economici annui di una pandemia intorno ai 500 miliardi di dollari, equivalenti allo 0.6% del reddito mondiale. L’insegnamento che invece possiamo trarre delle epidemie del passato è che le conseguenze che ci sono state sulle economie, sebbene ingenti, hanno avuto durata limitata nel tempo. E quindi possiamo sperare che ci sarà luce alla fine del tunnel».

Quali sono i settori più colpiti in Europa?

«È presto per fare una analisi sull’Europa, possiamo invece già vedere gli effetti della epidemia sull’economia cinese. Il settore dei trasporti e del turismo è sicuramente stato uno dei più colpiti: nel mese di febbraio il traffico aereo in Cina è diminuito del 90% rispetto a febbraio dello scorso anno. In secondo luogo, gli effetti si sono fatti sentire sul commercio e la grande distribuzione, il “retail”. Solo per fare degli esempi: hanno chiuso metà degli Starbucks su tutto il territorio cinese (quasi 2.000) e diverse centinaia di McDonald’s. C’è stato un incremento delle vendite online, ma non sufficiente per compensare le perdite registrate nel commercio fisico. Sono a rischio il settore del lusso e il settore automobilistico. I cinesi sono i più grandi consumatori di beni di lusso al mondo, con una quota di mercato pari a circa il 35% e rappresentano il più grande mercato automobilistico al mondo, con una quota del 23%. Nel mese di febbraio le vendite automobilistiche in Cina sono scese del 92% rispetto a febbraio dell’anno scorso. Anche i mercati finanziari hanno subito il colpo e presentano un alto livello di volatilità dovuta alle incertezze che permangono, sia nel mercato azionario, sia nel mercato dei cambi. Non tutti i settori hanno sofferto. I titoli delle aziende che si occupano di biotecnologie e le aziende farmaceutiche sono in rialzo, così come i prezzi dei beni rifugio tradizionali come l’oro».

Si può già parlare di conseguenze per l’economia abruzzese?

«Purtroppo sì. Il mese di gennaio ha fatto già registrare un drastico calo delle esportazioni abruzzesi verso la Cina, che sulla base dei dati ISTAT sono diminuite del 12% rispetto a gennaio dell’anno scorso. La Coldiretti Abruzzo ha mostrato apprensione per la riduzione delle esportazioni dell’agroalimentare ed in particolare per il vino, che è il prodotto più esportato in Cina. Il comparto turistico, inoltre, è chiaramente a forte rischio nella situazione attuale».

Quali misure economiche sono da adottare per superare al meglio la crisi?

«Il 3 marzo la Federal Reserve ha tagliato i tassi di interesse americani di 0.5 punti percentuali. Lo ha fatto con due settimane di anticipo rispetto ai tempi consueti per le decisioni di politica monetaria. Anche le banche centrali in Australia, Canada ed Indonesia hanno abbassato i tassi di interesse, e ci si aspetta che lo facciano presto anche la Banca d’Inghilterra e la Banca Centrale Europea. Con questi provvedimenti si è cercato di dare ossigeno all’economia riducendo i tassi e aumentando la liquidità. Tuttavia c’è consenso sul fatto che la soluzione per le economie mondiali non potrà passare solo per gli strumenti monetari. I tassi sono già molto bassi e non c’è molto spazio di manovra. Qualora volessero davvero rilanciare l’economia con politiche monetarie, le banche centrali si troverebbero presto, per così dire, senza munizioni. Sono essenziali politiche di supporto alle imprese e politiche del credito, che spingano le banche a continuare a prestare i soldi alle imprese in difficoltà. Saranno infatti soprattutto le piccole e medie imprese a subire l’impatto di questa crisi».

Cosa si può fare in futuro per mitigare gli effetti economici di simili pandemie?

«Sicuramente investire nel sistema sanitario, così che sia pronto non solo al noto ma anche all’ignoto. Inoltre, investire nei sistemi di sorveglianza e nella collaborazione internazionale, sia per quanto riguarda la ricerca, sia per quanto riguarda il monitoraggio delle malattie».