Un’abruzzese negli Usa, Daniela Puglielli

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Italian food ingredients on wooden background

La PR della food industry ci spiega cosa dovrebbero fare le aziende abruzzesi per avere successo nel mercato statunitense

Di Raffaella Quieti Cartledge

Fondatrice della ACCENT PR a New York, boutique integrata di pubbliche relazioni e marketing dedicata al lancio di prodotti e progetti promozionali negli Stati Uniti, l’abruzzese Daniela Puglielli ha organizzato oltre mille eventi negli USA rappresentando aziende italiane e non, e nel 2014, ha creato il Mediterranean Diet Roundtable, conferenza internazionale dedicata allo studio ed alle applicazioni della dieta mediterranea nel food service di scuole e mense lavorative, alla quale collaborano università come Harvard e Yale. Ideatrice ed organizzatrice della fiera di prodotti italiani Pizza Italia,  che si svolge con la collaborazione di catene di supermercati, è riuscita a far recuperare il contatto produttore-consultore ad un pubblico statunitense che si è dimostrato particolarmente ricettivo a questa riscoperta

Dott.ssa Puglielli, quali sono le tendenze attuali della food industry

«Se ne possono identificare diverse ma ce ne sono due principali, la prima specifica del mercato americano, la seconda globale. Qualche anno fa, l’amministrazione Obama avviò misure volte a proteggere il consumatore che hanno avuto un impatto su alcune decisioni della FDA (Food and Drug Administration, l’organo di controllo che decreta su cibo e medicine nel territorio statunitense). Dopo un percorso burocratico di diversi anni, a maggio 2017, è entrata in vigore una nuova legge che rende l’importatore responsabile a livello giuridico del prodotto che importa. La conseguenza più evidente sarà una restrizione di prodotti importati da Paesi caratterizzati da un prezzo alto all’origine, aggravato dall’impatto dei costi per le ispezioni e certificazione necessarie a qualificarsi per l’importazione. Ci sarà quindi una grande trasformazione nell’accessibilità al mercato americano e commercialmente si affermeranno le aziende che sapranno adattarsi alle nuove regole. La principale tendenza globale è quella dell’acquisto tramite e-commerce. Si va a fare la spesa con minore frequenza. La separazione tra il prodotto ed un volto dietro a quest’ultimo si era già verificata ampiamente nel passaggio dai mercati ai supermercati. Con la possibilità di fare la spesa online o tramite app, l’acquisto dei beni di consumo, inclusi quelli alimentari, sta diventando ancora più impersonale. I produttori cercano di compensare questa mancanza di contatto diretto con il pubblico tramite immagini e video, che però non colmano questo gap».

Al contrario, si può affermare che il format di Piazza Italia, una serie di mercati/eventi itineranti o “fiere del cibo italiano”, che lei organizza in associazione con i supermercati, abbia ovviato a questo crescente distacco tra produttore e consumatore? 

«Con questo format abbiamo recuperato quanto più possibile la dimensione del contatto fisico tra domanda e offerta. L’edizione più recente, con una serie di eventi organizzati ad aprile 2017, è stata realizzata in collaborazione con 25 produttori italiani, 12 supermercati Kings e 3 negozi della catena Balducci. Abbiamo scelto strategicamente la zona di intersezione dei tre Stati del New Jersey, New York e Connecticut, dove la percentuale di popolazione proveniente dal Belpaese è alta. Basti pensare che su 8 milioni e mezzo di abitanti del New Jersey, l’1.2 % è di origine italiana. Naturalmente, un progetto come Piazza Italia deve essere promosso in collaborazione con una catena di supermercati che compri il prodotto nelle quantità necessarie per sostenere l’aumento della domanda che si verifica a partire dall’evento».

 

Cosa offre Piazza Italia rispetto alla Fancy Food Show, una delle più grandi fiere al mondo dedicate alle specialità alimentari e alle bevande che si svolge in USA?

«Il Fancy Food Show è focalizzato sull’incontro tra produttori e buyer. L’investimento iniziale per la partecipazione può facilmente raggiungere i diecimila euro, somma importante per le piccole aziende alimentari che magari non sono pronte o non sono compatibili con il mercato USA. Per i prodotti che si affacciano sul mercato americano, Piazza Italia richiede un minimo di cinquecento dollari per la partecipazione ed è un ottimo veicolo di contatto tra produzione, import e vendita al dettaglio. Ad aprile abbiamo “ospitato” brand come Lazzaroni, Fabbri ed altri aziende artigianali di rilievo. L’importatore ed il buyer hanno avuto la possibilità di conoscere il produttore. Ciò ha anche facilitato l’onere di assumersi la nuova responsabilità giuridica di cui sopra. Abbiamo poi ricostruito quell’anello mancante tra consumatore e produttore. L’intrattenimento con spettacoli di opera, ballo e jazz ha costituito un sottofondo piacevole e il traffico generato è stato notevole, tanto che a settembre 2018 ci sarà la seconda edizione presso le stesse catene, Inoltre, altri gruppi di supermercati hanno richiesto la presenza di Piazza Italia in ulteriori Stati».

Quali sono i principali ostacoli per un prodotto “Made in Italy” nell’industria del food internazionale?

«Il prodotto italiano, soprattutto se artigianale e di qualità e conseguentemente dal prezzo elevato all’origine, non può competere con l’attuale trend di conglomerazione dell’industria del food internazionale (vedi l’acquisto di Wholefood da parte di Amazon). In termini pratici, il costo di un prodotto viene moltiplicato per quattro. Molti articoli italiani, già cari in partenza, non hanno quindi mercato se paragonati ad altri che hanno prezzi notevolmente inferiori. Piazza Italia offre al produttore un importante data mining sul gradimento e la potenzialità della propria merce, mentre spiega al consumatore americano la genesi e la qualità di quest’ultima: la “favola” dietro ogni confezione che restituisce una dimensione emozionante e non solo economica al marchio».

Verso quale tipologia di consumatore si indirizza la sua strategia e perché? 

«Ho selezionato un’audience che ha un’idea alterata del cibo italiano (per la quale si tratta semplicemente di “maccheroni and cheese”), consumatori che non conoscono il significato di dieta mediterranea. La “Generazione Z” e i “Millennial” (generalmente circoscritti tra i nati nella seconda metà degli anni Ottanta sino dagli inizi del millennio) negli USA, si nutrono ancora di pasti a cui si aggiunge lo zucchero su tutto (inclusa la pasta), ma hanno il desiderio e la possibilità di essere più informati su cosa mangiano. A questo proposito, svolgo un ruolo attivo nella Mediterranean Diet Roundtable, in partenariato con diversi college universitari, con la quale stiamo educando le nuove generazioni americane ai benefici della dieta mediterranea. Per cogliere la vastità di questo mercato, si pensi che nella sola città di New York vengono consumati 256 milioni di pasti all’anno, che includono quelli per impiegati, pompieri, poliziotti e studenti. È proprio qui, nei college, che bisogna giocarsi la partita per il domani».

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